Valeria Bianchi Mian, psicologa e psicoterapeuta, intervista Davide Sisto, tanatologo e filosofo, Docente all'Università di Torino ed esperto di tecnologie digitali, realtà virtuale e cultura cyborg, sul rapporto tra le tecnologie digitali e la morte
Davide Sisto, tanatologo e filosofo, insegna presso l’Università di Torino, dove tiene corsi di Filosofia ed Etica della Cura e laboratori di Culture Cyborg e Realtà Aumentata. Collabora altresì con l'Università di Trieste e insegna al Master “Death Studies & the End of Life” dell’Università di Padova. Si occupa da un punto di vista filosofico di tecnologie digitali, realtà virtuale e cultura cyborg, concentrandosi in particolare sulle metamorfosi tecnologiche della morte, della memoria e dell'immortalità. Cura, insieme a Marina Sozzi e a Cristina Vargas, il blog “Si può dire morte”.
Collabora con svariate società e associazioni che si occupano di elaborazione del lutto, di cure palliative o che, in generale, cercano di affrontare pubblicamente il tema della morte. Tra i suoi libri, tradotti in numerose lingue, meritano menzione "La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale" (Bollati Boringhieri 2018; Mit Press 2020; Katz Editores 2022; Zigurate 2023; Passagen Verlag 2024), "Ricordati di me. La rivoluzione digitale tra memoria e oblio" (Bollati Boringhieri 2020; Polity Press 2021; Niin & Näin 2021; Ketebe 2024), "Porcospini digitali. Vivere e mai morire online" (Bollati Boringhieri 2022; Fondo de Cultura Economica 2023; Katz Editores 2023). Nel corso del settembre 2023 è uscito il libro "I confini dell’umano.La tecnica, la natura, la specie" (Il Mulino) e a settembre 2024 pubblicherà il primo libro filosofico sul fenomeno dei virtual influencer (collana "Le Vele" di Einaudi).
Valeria Bianchi Mian: Scrittura e divulgazione in presenza e in rete sui temi caldi del nostro tempo sono per te intrecciate così come sembra osservando il tuo lavoro nei social? In un’epoca che sembra frammentare più che armonizzare le simbologie di vita e morte, secondo te essere impegnati nell'offerta di spunti per riflettere è utile? Hai avuto effettivo riscontro in questo campo?
Davide Sisto: Secondo me, la cosa più interessante dell’epoca che stiamo vivendo è il ruolo centrale che ha assunto la narrazione autobiografica negli spazi pubblici, sia online che offline. L’epoca dei social media, anticipata da quella dei blog e dei forum, ha certamente permesso alle persone che non svolgono un ruolo pubblico di poter esprimere liberamente sé stessi, di poter raccontare episodi della propria vita, mettere su carta le proprie riflessioni. E questo emerge chiaramente quando entrano in gioco le questioni inerenti a temi particolarmente delicati, spesso nascosti per ipocrisia o tabù. I social media hanno certamente permesso a più persone di non aver paura a raccontare ciò che stanno provando mentre affrontano una malattia, mostrandone magari i segni tramite le immagini e dunque cercando sia di fare comunità sia di rompere quel tabù che separa la società dei sani da quelli dei malati. Nel corso degli anni è emersa, proprio grazie alla narrazione autobiografica online, la volontà di ripensare il modo di affrontare le malattie, di descriverle, dunque di superare quella barriera che viene troppo spesso posta dinanzi alle persone gravemente malate. Lo stesso vale per l’esposizione della morte, dunque per i racconti legati al modo di elaborare un lutto e quindi di affrontare una perdita importante. Ogni social media, con caratteristiche differenti (pensiamo alla differenza abissale tra FB e Tik Tok), mette alla prova l’inventiva individuale per cui oggi è possibile condividere con gli altri ciò che si sta provando attraverso racconti articolati, scritti ovviamente da chi ha la padronanza linguistica necessaria per impostarli, ma anche attraverso il mix di immagini e di brevi testi scritti come avviene su Instagram, Tik Tok e ora Threads. Secondo me, l’importanza assunta dalla narrazione nel contesto pubblico in presenza di temi particolarmente delicati è superiore ai rischi derivanti dai suoi effetti narcisistici o dai tentativi – certamente presenti – di lucrare sul dolore. Uno dei miei luoghi preferiti, a riguardo, è YouTube. Cercate le canzoni con testi incentrati sul dolore in senso lato, sul lutto o sulla morte e vedrete nei commenti migliaia di narrazioni personali che, oltre a rappresentare uno sfogo per chi le crea, produce una forma di comunità.
Ci racconti "La morte si fa social"?
“La morte si fa social” è il primo libro filosofico pubblicato in Italia sul rapporto tra le tecnologie digitali e la morte. Un libro che è stato tradotto in svariate lingue e con cui ancora oggi, a distanza di anni, vengo identificato. Questo libro riassume, di fatto, gli studi e le ricerche che ho compiuto tra il 2014 e il 2018, l’anno in cui è stato pubblicato da Bollati Boringhieri. Quindi, si può dire che è un libro oggi datato: quando l’ho scritto non c’era Tik Tok, Facebook era ancora un social appetibile per le generazioni più giovani, nessuno sapeva cosa fossero applicazioni come ChatGPT, soprattutto non avevamo ancora vissuto la fase pandemica. Eppure è un libro che evidenzia il cambiamento in corso: quello relativo a un nuovo modo di affrontare la morte, il lutto, l’immortalità e la memoria al tempo delle tecnologie digitali. Racconto e descrivo diversi progetti che non hanno poi raggiunto gli obiettivi prefissati, così come anticipo delle situazioni che si sono ampiamente realizzate. Ho analizzato i tentativi di sviluppare narrazioni sul lutto e sulla morte all’interno dei social, ben prima che questo fenomeno esplodesse (pensiamo ai tanti hashtag su Tik Tok dietro cui si celano svariate descrizioni – di taglio intergenerazionale – riguardo a ciò che si prova durante un lutto), ho raccontato dei funerali in streaming (diventati centrali durante la pandemia), dei QR Code sulle tombe ai cimiteri (oggi al centro di svariate iniziative pubbliche e private, come dimostra l’ultima edizione di Tanexpo a Bologna). Ho anticipato un rito oramai diffuso tra giovani e meno giovani: scrivere al morto su WhatsApp, trasformando questa applicazione in una specie di diario simbolico che unisce il mondo dei vivi con quello dei morti. “La morte si fa social” è un libro a cui sono molto affezionato perché mostra un fenomeno che poi è letteralmente esploso. Ancora ricordo i commenti di alcuni colleghi, un po’ invidiosi, che mi dicevano che questo fenomeno sarebbe stato secondario o, comunque, momentaneo. A distanza di cinque anni dalla pubblicazione, il tema della morte digitale è oramai centrale nei percorsi universitari sia umanistici che scientifici, così come nei percorsi di cura relativi alle questioni riguardanti il sostegno psicologico al lutto o lo sviluppo delle cure palliative. Anche in ambito estetico-artistico il fenomeno ha assunto una sua peculiarità, se pensiamo a quanto oggi vadano di moda gli avatar dei cantanti deceduti. Senza contare l’aumento di iniziative volte a utilizzare l’intelligenza artificiale per far comunicare i vivi con i morti, altro fenomeno ampiamente anticipato nel mio libro.
E la tua ricerca successiva a questo saggio?
Dopo “La morte si fa social” ho scritto – prima – due libri “Ricordati di me” e “Porcospini digitali”, entrambi per Bollati Boringhieri, che approfondiscono il tema della morte digitale. “Ricordati di me” amplia le questioni in merito alla dialettica tra la memoria e l’oblio nell’epoca delle tecnologie digitali, mostrando come il processo di registrazione nella dimensione online stia creando una società sempre più nostalgica e portata a reiterare i fenomeni conclusi all’infinito. “Porcospini digitali” mostra cosa è successo durante la pandemia, quando abbiamo sostituito momentaneamente i nostri corpi fisici, costretti al lockdown, con i nostri corpi digitali. Il libro affronta quindi il tema della presenza, delle multi-identità e di un nuovo modo di intendere la corporeità. Entrambi i libri sono stati tradotti in svariate lingue. Poi, successivamente, ho scritto “I confini dell’umano” (Il Mulino) una panoramica sulle trasformazioni tecnologiche e scientifiche dell’umano nell’epoca che stiamo vivendo. Quindi, è un libro che ampia il tema mostrando la metamorfosi antropologica in corso. A settembre uscirà per Einaudi un libro sui virtual influencer, vale a dire su influencer che non esistono ma che sono creati a computer.
Cosa suggerisci, come pensatore contemporaneo, al pubblico di psicologi e psicoterapeuti che opera online?
È sempre difficile indicare dei nomi specifici di pensatori contemporanei. Generalmente mi lasciano indifferenti quelli eccessivamente apocalittici e moralistici nei confronti delle nuove tecnologie. Preferisco testi più visionari o, comunque, più abili ad analizzare i fenomeni con raziocinio e tranquillità. Uno dei miei autori preferiti, in merito, è Kenneth Goldsmith, tradotto in italiano da Einaudi e Not. Così come meritano una rilettura quegli autori che hanno affrontato le tematiche tecnologiche negli anni Novanta, come Erik Davis, Antonio Caronia. Attualmente, si sta affermando all’estero un fenomeno chiamato “foreverism”, su cui si è concentrato il filosofo Grafton Tanner, il quale mostra come sta cambiando la nostalgia e il senso di perdita in un’epoca in cui tratteniamo tutto.