L'emergenza legata al Coronavirus ha fatto letteralmente esplodere la "psicologia a distanza" in un fiorire di iniziative spesso segnate dall'impronta del pressappochismo e della superficialità.
di Luigi Di Giuseppe
In questi giorni appena trascorsi, in un tempo che sembra essersi fermato a causa della pandemia legata al Covid-19, alcune attività particolari hanno subito una accelerazione fuori della norma e sembrano essere letteralmente esplose.
Certamente già si vedono, in questi giorni legati alla Fase 2 dell'emergenza, forti segnali di rallentamento e di ritorno a situazioni "normali" ma, come sempre quando le piene arrivano, spesso travolgono tutto e lasciano danni e macerie sul terreno anche se le acque tornano a fluire pacificamente negli argini naturali.
E' quello che, a mio giudizio, è accaduto in questi giorni dove l'urgenza e l'emergenza sembrano aver giustificato in ambito psicologico (ed in particolare in quello clinico) qualunque scelta, giusta o sbagliata, che sia stata fatta "pur di lavorare".
Purtroppo, però, le incongruenze che inizialmente sembrano non evidenziarsi dopo poco emergono con tutta la loro forza e si pongono prepotentemente all'attenzione di tutti. Vorrei, senza spirito polemico ma con un animo profondamente costruttivo e collaborativo, evidenziare quelle cose che, personalmente, ho visto e non ho compreso/condiviso.
Lavoro da casa! Che bello e che comodo!
Il primo punto che è balzato ai miei occhi (o alle mie orecchie conversando con i colleghi) è stato quello della scelta del "luogo" da cui operare. Non voglio, qui, discutere di "setting" o altro (ci sarà tempo per farlo) e neppure di "disclosure" dello psicologo e/o psicoterapeuta ma più semplicemente di "comunicazioni" che si passano a chi è dall'altra parte dello schermo.
E' vero che si è trattato di una scelta emergenziale e che "uscire di casa e muoversi" era sostanzialmente proibito ma in tutto il periodo emergenziale la nostra attività professionale, in quanto sanitaria, è sempre stata consentita ed era assolutamente possibile recarsi nel proprio Studio professionale per "esigenze di lavoro".
Nel pieno rispetto delle regole, avremmo anche potuto ricevere i nostri pazienti/clienti di persona, senza doverli "spostare" on line.
Abbiamo preferito farlo, per giuste esigenze di tutela personali e professionali e sostanzialmente lo trovo corretto, ma perché da casa? Perché non recarsi in Studio e da lì operare a distanza?
E' una domanda che mi sono posto e che ho posto a tutti i colleghi con cui mi sono confrontato sull'argomento "psicologia on line" e non sono riuscito ad ottenere una risposta che mi aiutasse a comprendere le motivazioni "tecniche" (e non personali) di una tale scelta.
Mi piacerebbe che si aprisse un concreto dibattito, senza inutili preconcetti, su questo argomento così da poterne comprendere pienamente le implicazioni, sia a livello personale (e quindi pratico) che a livello teorico, nel rapporto con gli utenti.
Personalmente penso che, pur nell''emergenza (che non giustifica assolutamente superficialità), la scelta migliore sia quella di un ambiente "neutro" (come è solitamente lo Studio professionale), dove sia il paziente che il terapeuta possano vivere un rapporto stabile e perfettamente definito. Non solo da un punto di vista "fisico" ma anche "fantasmatico". Credo ci sia una grande differenza fra immaginare il proprio terapeuta seduto in Studio, nel proprio Studio, oppure seduto a casa propria. E non è una questione di sfondi (come qualcuno mi ha detto) o di abbigliamento sotto-sopra (come ho, inorridendo, letto sui social). Non è neanche una questione di garanzia della privacy (propria e degli utenti) o di ipotetiche incursioni familiari nel corso dell'incontro on line. E', secondo me, un mondo "che cambia" e che viene percepito in modo diverso, con minore professionalità e/o minore impatto.
Ovviamente questa è una opinione personalissima e sarei lieto di conoscere opinioni assonanti o divergenti rispetto a quella che sto esprimendo adesso.
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