Chi propone il video come setting ha necessità di essere consapevole che esiste anche una comunicazione inconsapevole poiché il video è un fattore limitante della comunicazione e viene impiegato come miglior surrogato della presenza reale.
di Stefano Paolillo
Nell'ormai lontano 1967 il sociologo canadese Marshal McLuhan pubblicava il suo "Il medium è il messaggio" che fu la chiave di volta per comprendere gli effetti semiotici di un video. A partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso anche in Italia è cominciata la progressiva "alfabetizzazione video" degli italiani che, trent'anni dopo, avrebbero scoperto che un televisore può essere anche l'interfaccia di un computer.
Gli home computer, infatti, cominciarono a costare cifre accessibili alle famiglie e sempre più persone acquisivano pratica su questo nuovo medium. L'ultima svolta tecnologica sulle modalità di fruizione è stata il computer portatile prima, lo smartphone dopo, che hanno liberato la fruizione/realizzazione di video rispetto ad un luogo predestinato.
Parallelamente all'evoluzione delle interfacce video, c'è stato il progressivo affinamento delle competenze linguistiche della narrazione audiovisiva. A partire dalle generazioni nate negli anni Sessanta, le esposizioni al linguaggio del video si sono dilatate, facendo accumulare migliaia di ore di fruizione. Così come accadrebbe per una lingua straniera quando andiamo all'estero, la continua esposizione ad una lingua ci permette di interiorizzare le regole e le prassi della stessa, rendendo assolutamente inconsapevoli le persone a questa conoscenza, ma diventando attive nel momento in cui diventa necessario valutare un'esperienza video.
Una di queste conoscenze è legata alla prossemica audiovisiva. Parimenti a quella che agisce su di noi nello spazio reale, la fruizione dei video risente della nostra idea di "bolla prossemica". L'immagine del nostro interlocutore all'interno della cornice dello schermo entra in risonanza inconscia con i nostri criteri prossemici. Inoltre, esiste la consapevolezza implicita dell'esistenza di uno "spazio esterno all'inquadratura" che può interagire, più o meno consapevolmente, con l'interlocutore nel momento in cui noi parliamo. Quindi, è "non coerente" l'immagine di un interlocutore (terapeuta) troppo vicino alla telecamera (in termini cinematografici in primissimo piano e in termini prossemici dentro la bolla) o troppo lontano (a figura intera e prossemicamente distante). La prima è ritenuta invadente e la seconda viene vissuta come un modo di prendere le distanze.
Un altro aspetto della prossemica audiovisiva deriva dall'assenza dei movimenti del collo. Quando siamo nella stanza del terapeuta abbiamo libertà di girare lo sguardo e, come ben sa chi ha un proprio studio e un proprio arredamento, gli oggetti e la loro disposizione entrano nella dialettica con la persona. Nel momento in cui la "ristrettezza di campo" dell'inquadratura della videochiamata riduce questo grado di libertà, questa privazione si va a sommare con l'assenza di tutta la comunicazione non-verbale che è strutturalmente limitata nella videochiamata.
Il video, dunque, è un fattore limitante della comunicazione umana e viene impiegato perché è il miglior surrogato della presenza reale in caso di forza maggiore. Ma se il paziente non ha alcun obbligo di consapevolezza, chi propone il video come setting ha necessità di essere consapevole che esiste, anche in questo caso, una comunicazione inconsapevole perché "il medium è il messaggio".
Stefano Paolillo, Psicologo, si occupa di informazione e audiovisivi da oltre vent'anni. |